Dagli anni Novanta del secolo
scorso, il tarantismo è al centro di un rinnovato interesse antropologico,
sociologico, culturale: si assiste a una sorprendente fioritura degli studi, a
un’imponente produzione saggistica e narrativa, che spazia dall’indagine
dell’eredità demartiniana all’elaborazione delle più diverse ipotesi
classificatorie (rituale di possessione, fenomeno magico-religioso, pratica di
esorcismo-adorcismo); dalla creazione del topos letterario che celebra il luogo
incorrotto e segnato dalla sopravvivenza di riti ancestrali, al processo di
patrimonializzazione del tarantismo, che coinvolge numerosi attori sociali,
portatori di istanze differenti, e converge sul dibattito intorno alle eredità
culturali. Il Salento torna così a essere un osservatorio privilegiato per
l’antropologia italiana, un campo etnografico mutevole e complesso in cui si
affermano pratiche reinventive e di ‘riuso’ dei materiali del tarantismo, nel
segno dell’etnicità: il folk revival e il recupero della pizzica con una decisa
rivendicazione identitaria; un fenomeno di riconversione simbolica, oggetto di
accesa dialettica, per cui il tarantismo è passato, citando Marino Niola, «da
stigma a bene immateriale ad attrattore turistico e volano di marketing
territoriale». Queste interviste, raccolte lungo l’arco di un quindicennio,
rispondono a una duplice esigenza. Da un lato, l’amore del documento e il
rigore metodologico guidano l’autore nel tentativo di tracciare con ordine e
sistematicità una storia degli studi lunga diversi secoli e ricca
d’innumerevoli contributi, col supporto di un paziente, puntiglioso lavoro di
ricerca e compilazione bibliografica. Gli interlocutori – nomi prestigiosi
della tradizione etnoantropologica italiana, letterati, studiosi di cultura
locale e figure di rilievo del mondo popolare salentino – sono chiamati a
verificare e approfondire, scandagliare gli aspetti sfuggenti o poco indagati
di un fenomeno che è stato definito, con felice espressione, un «rompicapo ermeneutico».
Oltre che strumento d’indagine conoscitiva, l’intervista è però, per Sergio
Torsello, occasione di stabilire quella che de Martino chiamava una relazione
«di confronto»: colpisce lo sforzo di condividere interpretazioni e identità
culturali, in una prospettiva dialogica e corale in grado di gettare un ponte
fra generazioni e scuole, favorire un fertile confronto fra l’accademia e la
cultura locale. Ne emerge, per usare un’immagine cara all’autore, «una tela
infinita che continuamente si disfa e si ricompone, nella quale convivono
osservatori e osservati, sguardi e punti di vista differenti», così da tessere
insieme i mille fili che legano l’immaginario di un territorio. «Mi piace
pensare» scrive nella prefazione al testo Gabriele Mina «che Sergio, in modo
ironico, sentisse l’eredità di quegli etnografi che battevano il territorio,
paese per paese, interrogando chicchessia, accumulando dati e scrivendo missive
alle accademie. Ora, per una volta, siamo noi a fare un passo indietro e a
mettere in luce lui, leggendo qui le sue domande puntuali sull’identità dei
luoghi e sulla reinvenzione della memoria, riconoscendo fra le sue note
dettagliate la vocazione dell’antropologo militante».
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