sabato 22 agosto 2015

Iris. Un amore meccanico di Judd Trichter (Fanucci)














Questa è la città in cui lavorava Iris Matsuo, in una maquiladora di proprietà di una heartbeat chiamata Karoll Mun. È qui che Iris si è fatta una vita, una buona vita per gli standard androidi, grazie a una capa ragionevole che ha riconosciuto le sue qualità di creativa. Ed è proprio da lì che Eliot, il sabato mattina dopo aver preso atto della sua scomparsa, inizia le ricerche. Indossa un vestito grigio e un cappello di feltro. Un paio di occhiali da sole gli copre le ferite che ha sul volto. Prende un autobus e un treno volante pieno di androidi con la divisa da lavoro del week-end. Per i robot non c'è riposo. La vibrazione dei motori delle fabbriche fa sbatacchiare il treno mentre plana nella stazione. Eliot, dai finestrini, vede le facce ricoperte di fuliggine degli androidi che attendono in fondo alla banchina. Appena le porte si aprono viene accolto da un fracasso di clacson, campanelli e fischi. Fuori dalla stazione, in quelle strade oscure e fuligginose, scorge a malapena una porzione di cielo. Su di lui s'innalzano pericolanti torri arcuate. Carrelli elevatori e bancali passano velocemente accanto ad autoscale e ascensori aperti che incrociano il suo percorso. La leggenda vuole che la città cresca di quasi mezzo metro a settimana in ogni direzione. E che nel sottosuolo si aggrovigli, lì dove le nuove fabbriche scavano sempre più in profondità e vengono collegate da tunnel e treni sotterranei.

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